Fermiamo la barbarie

da | Nov 22, 2020

In occasione della Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne 2020

Quello che segue è il testo integrale dell’intervista fattami dal giornalista Andrea Cassisi del settimanale “Settegiorni”in occasione della Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne del 25 Novembre 2020.

 

Dottor Pintus, il 25 novembre si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. In Italia secondo Istat – che ha preso in esame le chiamate al numero antiviolenza 1522 – durante il lockdown c’è stato un incremento della richiesta d’aiuto del 73% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Inoltre, il 45,3% delle vittime ha paura per la propria incolumità o di morire; ma il 72,8% non denuncia il reato subito. Sono, invece, 30 le donne uccise nei primi 5 mesi del 2020. Questi dati, purtroppo, dovevamo prevederli?

E’ una contabilità terribile ma forse si, dovevamo aspettarci che, in uno stato sociale che relega le donne tutt’ora a ruoli di marginalità e vittime di stereotipi di genere fomentati da una cultura machista e mascolina, dovevamo aspettarci, dicevo, una recrudescenza di crimini di questo tipo. In realtà le cronache di violenza di genere durante il lockdown seguono un trend che purtroppo è sempre in salita e nonostante gli appelli, i richiami, gli interventi normativi ed educativi sembra irrefrenabile. Ne siamo tutti responsabili, ognuno per la propria quota, perché quando facciamo delle urla il nostro modo di comunicare, quando inneggiamo all’arrivismo ad ogni costo, quando disprezziamo il “diverso” e chiamiamo alle armi stiamo tutti contribuendo ad un clima di violenza di cui femminicidio, abusi sessuali e violenza di genere sono solo alcune delle drammatiche manifestazioni.”

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la violenza sulle donne “una pandemia invisibile” che continua a rappresentare la maggiore minaccia alla salute pubblica globale. Quale è il vaccino?

Io credo che noi umani abbiamo già gli anticorpi alla violenza e alla discriminazione di qualunque tipo (di genere, sessuale, razziale, religiosa), ma facciamo fatica ad utilizzarli. L’essere umano ha un innato istinto relazionale sin dal suo concepimento, esercita da sempre la sua curiosità e l’apertura alla novità. E’ stimolando la capacità di incontro interpersonale, l’apertura all’Altro, la competenza al dialogo, la gestione dell’affettività sin dalle prime fasi della vita che possiamo confidare in rapporti di coppia e umani più sani ed equilibrati.”

 

Scendiamo più nella sua materia: l’universo mentale della vittima diventa quello del persecutore; la vittima è espropriata del proprio sé, della propria capacità di giudizio rispetto agli eventi nella quale è coinvolta. Come e quando riconoscere che è in atto una strategia di vittimizzazione?

Atroci atti di violenza sono il segno di un imbarbarimento delle relazioni, un processo regressivo che altera a poco a poco la percezione dell’altro per quello che è: un essere-simile-a-me. E’ un processo di cosificazione dell’Altro, per cui se l’Atro è un oggetto io ne posso disporre in modo egocentrico e narcisistico per la soddisfazione dei miei bisogni. Quando un rapporto tra pari (coniugi, conviventi, amici, colleghi) comincia con il perdere la caratteristica precipua della reciprocità, dell’ascolto e del rispetto, e si denota invece per sopraffazione, miopia relazionale, negazione dell’esistenza dell’altro, ci avviamo inesorabilmente verso una nuova barbarie relazionale, e talvolta verso il suo drammatico epilogo.”

 

L’uomo riconosce la sua “debolezza” nel pretendere “rispetto” in modo violento, ma continua a colpevolizzare le donne. Cosa può fare uno psicologo o uno psicoterapeuta a cui una donna – poche volte – si rivolge per chiedere aiuto?

La colpevolizzazione della vittima è “il capolavoro” miserabile del violento, che non riuscendo a negare del tutto la propria natura umana e non potendo riconoscersi del tutto come il criminale-persecutore proietta sulla vittima le proprie debolezze e mancanze, sentendosi nella legittimità di infierire sulla vittima per le sue presunte colpe e negligenze. La violenza non è mai a fin di bene, la gelosia non è mai dimostrazione di amore, le ritorsioni non sono mai la giusta punizione per le proprie manchevolezze. La violenza è l’arma vigliacca di chi ha smesso di sentirsi parte della comunità umana e va denunciata sempre. Spesso la rivelazione di una violenza o di un abuso avviene all’interno di un percorso terapeutico, ed è un momento delicatissimo dalle mille implicazioni umane, cliniche, legali. La relazione terapeutica, quale spazio sicuro e protetto, può essere anche il luogo della riparazione, all’interno del quale spogliarsi di una falsa colpevolizzazione, uscire fuori dal ruolo della vittima, recuperare la propria dignità umana e superare le ferite relazionali. Non bisogna poi dimenticare il fondamentale ruolo dei Centri Antiviolenza, grandi collettori di richieste di aiuto e sostegno professionale per donne vittime di violenza.”